
Giorgio Albertini
TRAMONTO SUL DISGRAZIA 1994
TRAMONTO SUL DISGRAZIA 1994
Acrilico su tela, cm
100x100
©Collezione Credito Valtellinese
Una grande passione, ma disincantata, per la pittura.
E’ la sensazione che immediatamente trasmettono le vette dipinte da Albertini nel corso della sua ormai lunga e stimabile carriera artistica. Amante della montagna, ma non dell’alta quota, Giorgio preferisce godere l’alpe alzando lo sguardo dal fondovalle, e prendendosi la giusta distanza, quella dell’ironia, dalle cime innevate. Perché la sua pittura è innanzitutto uno strumento per esorcizzare l’immagine consumistica che col tempo è andata a patinare l’originale, impedendone un’apprensione interpretativa avulsa da stereotipi. Più volte con la sua arte ha dileggiato la cromofotoimmagine stampata, ma senza mai rinunciare ai fasti – soprattutto cromatici – propri della pittura.
Una sorta di Andy Warhol al contrario, insomma.
Questa veduta del Disgrazia – famosa vetta delle Retiche occidentali di oltre 3.500 metri, conquistata per la prima volta dal padre di Virginia Woolf, Leslie Stephen, nel 1862 – è stata presa dalle valle di Chiareggio. Come dimostrano le ultime luci della sera sulla cresta nord-occidentale, la fotografia da cui Albertini ha tratto il dipinto è stata scattata all’inizio dell’estate: «ad un certo punto mi è venuto il desiderio di trasformare questo scatto in qualcosa che fosse mio, solo mio, indipendentemente da ciò che suggeriva la ripresa fotografica, soprattutto dal punto di vista cromatico». L’appropriazione della visione come fatto personale segna costantemente il dispiegarsi inquieto delle sue tele, perché per l’artista dipingere qualcosa equivale a possederne l’anima, come in una sorta di rito tribale, una manìa, per sua esatta definizione. Nondimeno, l’addentrarsi nelle viscere della visione è per lui un processo lento, cauto, faticosissimo. Le prime annotazioni grafiche, la silhouette della massa montuosa tracciata meticolosamente sulla tela senza preparazione; poi l’addensarsi delle ombre, dei toni scuri, per infine andare a schiarire le emergenze, i punti di luce. Così i toni scuri rimangono netti, puliti, e l’essenza liquida dell’acrilico lo accompagna efficacemente durante tutto il processo.
L’intera apparizione viene evocata nel buio e nel silenzio del suo studio milanese, con le imposte serrate e la luce artificiale che urta, senza mercéde, sulla tela. I toni tenebrosi e violetti del cielo, e delle masse geologiche inferiori hanno un gusto quasi litografico, che contrasta apertamente con la cresta e la cima del Disgrazia, che emergono nel loro realismo aguzzo e disperato, assediate dall’ampio ghiacciaio che, per l’appunto, “desglacia”.
Giorgio Albertini (Milano 1930 - 2000)
ha insegnato
alla NABA (Nuova accademia di Belle Arti di Milano) ed esposto in importanti
gallerie pubbliche e private in Italia e all’estero, partecipando a Fiere
d’arte internazionali.
Nel 1961 incomincia ad esporre nell'ambito di una pittura
che, se pure di tipo informale, ha riferimenti naturalistici, che il decennio
successivo evolve in un discorso sulla figurazione con il tramite della
fotografia. Dagli anni 80 lavora sul tema del paesaggio alpino e della natura
morta, altalenante tra l'immagine tratta dalla composizione pubblicitaria della
carta patinata e la memoria di brani pittorici seicenteschi, con particolare
riferimento ai lavori di Evaristo Baschenis.
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